lunedì 23 agosto 2010

Lucania: ceneri mortali Fenice


di Gianni Lannes

La fenice era un mitico uccello che, dopo un ciclo vitale di 500 anni, moriva nel fuoco risorgendo poi dalle sue ceneri. Ma se queste ridavano vita al mitico volatile, oggi mettono a repentaglio l’esistenza dei cittadini lucani del Vulture-Melfese, quelli pugliesi del basso Tavoliere nonché della Murgia barese. Nell’area di San Nicola di Melfi (a meno di 3 chilometri da Lavello e a 2 dal fiume Ofanto), infatti, la Fiat – grazie a finanziamenti e agevolazioni statali – ha messo in funzione dal settembre 1999, contro la volontà della popolazione locale che si era pronunciata negativamente con un referendum, un inceneritore di rifiuti tossico-nocivi che avvelena innanzitutto gli operai della Sata (Fiat). Attualmente è il più grande d’Europa e si chiama appunto “Fenice”: brucia a cielo aperto, puntualizzavano le cifre ufficiali ma non aggiornate dell’azienda torinese ben «66 mila tonnellate l’anno di scorie»: 40 mila provenienti dalle regioni settentrionali d’Italia, ma anche dall’estero (Francia e Germania), previo scalo a Orbassano in Piemonte e sosta prolungata per settimane e, a volte, addirittura mesi, nella stazione ferroviaria di Foggia. Il cronista chiede ai responsabili una dichiarazione in merito e l’autorizzazione a poter visitare l’impianto, ma riceve soltanto un diniego. La fabbrica di diossine cancerogene alla fine dell’anno 2001 è stata venduta all’Edf che gestisce al di là delle Alpi una cinquantina di centrali nucleari. I francesi tacciono e non forniscono i dati reali sull’inquinamento. L’Arpa lucana sonnecchia, infatti per oltre un lustro non ha effettuato controlli. Il direttore dell’Arpab Vincenzo Sigillito è sordo alle richieste di dimissioni avanzate da cittadini e parlamentari. L’inquinamento a base di sovrabbondanti iniezioni di mercurio nelle falde acquifere dell’area è noto ai passivi addetti ai lavori ma la magistratura non interviene. Il procuratore della Repubblica di Melfi – Renato Arminio – dorme sonni beati? Ad un tiro di schioppo sorge il più importante stabilimento della Barilla nel Mezzogiorno, imbottito di amianto a perdere (vedi inchiesta personale pubblicata dal quotidiano La Stampa l’11 ottobre 2008). Coltivazioni agricole ed ovini al pascolo completano il quadro locale. «Da queste parti – racconta Giulio P., 21 anni, studente di Lavello – il ricatto del lavoro è fortissimo. I dirigenti della Fiat dicono che se vogliamo tenerci le fabbriche dobbiamo accettare anche l’inquinamento, le malattie, i tumori e la distruzione delle terre. Vuole un esempio? Qui c’era una selva di uliveti plurisecolari, altamente produttivi, che la Fiat ha raso al suolo per insediarsi». Conseguenze epidemiologiche? «I residui della combustione ammontano a 27 mila tonnellate annue» recitano i dati ufficiali ampiamente sottostimati. Si tratta di materia solida e letale che finisce nel sottosuolo della Basilicata – inquinando le falde come ha denunciato l’OLA – e nel fiume Ofanto che si getta nel mare Adriatico. Non è tutto. L’altoforno industriale sputa nell’atmosfera di una delle zone di maggior pregio agricolo del Mezzogiorno – dove lavorano centinaia di aziende agricole, zootecniche, turistiche e delle acque minerali – milioni di metri cubi di fumi fortemente nocivi. «Emissioni oltre i limiti normativi di polveri di metalli pesanti, ossidi di azoto e diossine» accerta periodicamente l’azienda sanitaria locale. Nella scarsa documentazione resa pubblica dalla Fiat, queste sostanze segnalano gli indici più preoccupanti: esalazioni nella misura di «un nanogrammo a metro cubo di rifiuti bruciati», mentre la normativa europea si attesta su un limite di dieci volte inferiore, ovvero 0,1 nanogrammi a metro cubo. La potenzialità cancerogena e mutagena di tali veleni è nota a livello internazionale da decenni. Il gigante automobilistico italiano getta acqua sul fuoco: «E’ tutto sotto controllo: la piattaforma di San Nicola risponde ad una logica concordata qualche anno fa col ministro dell’ambiente Ronchi». Il gruppo transalpino Edf neanche risponde. Eppure, in uno studio elaborato da Luigi Notarnicola, docente del Dipartimento di Scienze geografiche e Merceologiche dell’Università di Bari, emergono dati inquietanti. «Le documentazioni tecniche disponibili non consentono di escludere effetti negativi sulla popolazione di Lavello e nell’intero territorio – scrive il professor Notarnicola – L’insediamento della Sata (Fiat, ndr) e della piattaforma Fenice porta un’immissione nell’atmosfera di oltre 12 milioni di metri cubi all’ora di fumi». E ancora: «Ai danni per la popolazione di Lavello associati all’inquinamento atmosferico vanno aggiunti quelli derivanti all’agricoltura fiorente in tutta la valle, dagli elevatissimi prelevamenti di acqua potabile (12,5 milioni di metri cubi all’anno)». Una nota dell’assessorato regionale all’ambiente rivela: «Nell’autorizzazione a Fenice avevamo imposto il divieto di importazione di rifiuti da fuori regione». Ma i controlli scarseggiano. A fronteggiare casa Agnelli sono due gruppi combattivi e organizzati: il Comitato dei cittadini di Lavello e l’associazione “Uniti per Melfi”. Poi ci sono altri aggregati nei paesi limitrofi, anche in Puglia. Per esempio a Rocchetta Sant’Antonio e Bovino. R. S., operaio Sata solleva interrogativi: «Perché un termodistruttore a Melfi? Forse perché non si possono più usare i vecchi sistemi di smaltimento ormai noti, e quindi è bene realizzare nuovi mezzi di avvelenamento e ubicarli dove la gente è poca e non ha la forza di contrastare i colossi della grande finanza». I fatti appaiono inequivocabili: il progetto “Fenice” bloccato a Biella, è passato in Basilicata con una delibera regionale il 2 maggio 1995, approvata da una giunta ormai sciolta (le nuove elezioni si erano svolte una decina di giorni prima) e non ha mai ricevuto la ratifica del consiglio regionale, prevista per legge entro 30 giorni. Il nuovo governo regionale ha impugnato la delibera e presentato ricorso al Tar, che però ha dato ragione alla Fiat. La Regione, comunque, ha nominato tre esperti per valutare l’impatto ambientale, e i tecnici nello stupore generale, hanno espresso un giudizio di fattibilità dell’opera. Trascorrono solo alcuni mesi e due dei tre membri di quella commissione passano ad altri incarichi: uno, l’ingegner Valicanti, entra direttamente nell’orbita Fiat e viene chiamato alla direzione dei lavori, addirittura nel cantiere dell’inceneritore; l’altro, il professor Cuomo, viene indicato come responsabile del monitoraggio ambientale della zona. E’ decisamente improbabile che le tesi rassicuranti dell’azienda automobilistica convincano i lucani. Gli stessi cittadini che il 25 ottobre 1998, con un referendum consultivo avevano detto “no alla Fenice”. Un rifiuto avvalorato dal sequestro giudiziario il 7 luglio 2001 a Melfi di 8 vagoni merci stracolmi di rifiuti industriali e ospedalieri provenienti da Forlì (movimentati dalla ditta Mengozzi), a Foggia di altri 27 carri, 9 a Brindisi e 5 a Falconara in provincia di Ancona. Si trattava di 400 tonnellate di “materiali a rischio infettivo”. Il serpentone ferroviario carico di residui letali non si è ancora interrotto, vaga per lo Stivale in direzione sud. «Le scorie contengono rifiuti ospedalieri classificati dalla normativa vigente come pericolosi»segnala il sostituto procuratore Ugo Miraglia del Giudice. Provengono da Forlì, Torino, Genova, Vado Ligure, Treviso, ma anche dall’estero. Destinazione finale: la “Fenice” di Melfi. «Non possiamo controllare tutto» dicono all’unisono i dirigenti di Trenitalia Luigi Irdi e Claudio Cristofani. Gran parte dei documenti di viaggio dei vagoni fantasma indicano luoghi di partenza, itinerari e percorsi alla luce del sole. Dalla Francia, spicca, in particolare, il tragitto Amiens-Modane-Ventimiglia-Orbassano utilizzato dalla Whirlpool Europe e da altre aziende senza apparente identità. «Materiale innocuo, elettrodomestici, indumenti usati» si legge nelle bolle d’accompagnamento. Ma allora per quale ragione negli stessi documenti i tecnici delle FS annotano: «Da maneggiare con estrema cautela»? In un altro documento delle FS, il numero 46, compilato a Napoli il 2 aprile dal capo manovra Mazzone è scritto: «Dalla prima traccia parte carro di rifiuti ospedalieri n. 12033325 diretto Oristano (prestare attenzione è merce fragile)». Il vagone però finisce a Brindisi. Altri vettori da decine e passa di tonnellate cadauno, provengono dalla General Motors di Livorno, dalla Cemat di Padova, dalla Hike Coop di Mantova. Ed è curioso che la Polimeri Europa di Brindisi spedisca alla Piccinini presso l’interporto di Parma, “resine sintetiche in granuli” che finiscono nell’inceneritore di Melfi. Identico copione per la Waste Management di Massa che invia rifiuti non meglio identificati alla Sipsa di Oristano. Perché le Fs raccomandano di “maneggiare con precauzione” i capi d’abbigliamento? I carri contengono realmente oggetti innocui? Il professor Giorgio Nebbia, esperto di fama internazionale non ha dubbi: «Nessuno ne conosce la provenienza, l’esatta composizione chimica nonché la pericolosità». E aggiunge: «Pullulano decine di eco-imprese che vendono lo smaltimento in inceneritori, in impianti di compattazione, in discariche: quello che conta è che i rifiuti non si vedano e non puzzino». L’Ocse stima che «Tre quarti dei rifiuti pericolosi europei, circa 30 milioni di tonnellate annue, siano di origine e di composizione sconosciute». I dati ufficiali dell’Unione europea condannano il Belpaese: solo negli ultimi 21 anni sono stati occultati «1 miliardo di tonnellate di rifiuti d’ogni genere». Dove sono finiti? I tentacoli della piovra si sono allungati da nord a sud. L’internazionale dei veleni, infatti, oltre che nei Paesi del Terzo mondo, si è data appuntamento nel Mezzogiorno d’Italia.

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