lunedì 21 giugno 2010

Per l’acqua e la democrazia

[Fonte: Federazione della Sinistra]

di Marco Bersani* e Corrado Oddi** su il Manifesto del 20 giugno

In soli 50 giorni un milione di donne e uomini hanno firmato i tre referendum per la ripubblicizzazione dell’acqua.
Un risultato straordinario, ottenuto da una grande coalizione sociale promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua e dal capillare e reticolare impegno di migliaia di comitati sorti in tutto il Paese.
Senza padrini politici, senza grandi finanziatori, nel più completo silenzio dei più «importanti» mass media.
Qualcosa sta succedendo in questo paese. Una nuova narrazione sull’acqua e dei beni comuni, frutto di un decennio di sensibilizzazione e di mobilitazione sociale, è emersa, dimostrando come su questo tema abbiamo già vinto culturalmente.
Basta vedere le scomposte reazioni dei fautori delle privatizzazioni – Governo, Confindustria e Federutility in primis – i quali, se solo pochi anni addietro potevano rivendicare apertamente il dogma del «privato è bello», sono oggi costretti a giocare in difesa, a negare di voler privatizzare, a diffondere cortine fumogene sul pericolo referendario.
Consapevoli di aver perso il consenso, faticano tuttavia a rendersi conto di come dietro a questa straordinaria mobilitazione popolare ci sia molto di più.
Perché il milione di donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum forse non hanno ancora interamente acquisito tutta la complessità del tema acqua e privatizzazioni, ma nel loro incedere a testa alta verso i banchetti hanno dimostrato una forte consapevolezza sulla posta in gioco : mettere uno «stop» all’ideologia del mercato come unico regolatore sociale e invertire la rotta, riappropriandosi dell’acqua e dei beni comuni, che solo una democrazia partecipata e condivisa può gestire a finalità sociali.
Quel milione di donne e uomini sono un nuovo anticorpo sociale che parla all’intero Paese e alla crisi economica, ambientale e di democrazia che lo attanaglia.
Dice a chiare lettere che gli attacchi ai diritti sociali e del lavoro, la privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni, la demolizione della Costituzione e della democrazia non sono uno scenario ineluttabile, bensì il frutto di scelte politiche ancora una volta dettate da questo governo e dagli interessi dei grandi poteri economici-finanziari.
Quel milione di donne e di uomini sta indicando un’altra direzione : dalla crisi si esce attraverso la redistribuzione del reddito verso il lavoro e i ceti più deboli e attraverso l’appropriazione sociale di ciò che ci appartiene, a partire dal bene più essenziale di tutti, l’acqua. Dalla crisi si esce attraverso un nuovo ruolo del pubblico e della democrazia, che devono essere fondati sulla partecipazione popolare.
In questi mesi, con quest’esperienza, si è costruito uno straordinario laboratorio sociale.
Ma sappiamo che è solo il primo passo. Perché dalla vittoria culturale si passi alla vittoria politica, occorrerà, entro la prossima primavera, trasformare questo milione di firmatari in almeno 25 milioni di votanti.
Sarà un percorso difficile ed entusiasmante; avrà bisogno di tutte le donne e gli uomini che vogliono liberare l’acqua, rifondare la democrazia, redistribuire la speranza.
Oggi possiamo intraprenderlo con nuova fiducia, tutti insieme.

* Attac Italia- Forum Italiano Movimenti per l’acqua
** FP CGIL- Forum Italiano Movimenti per l’acqua

venerdì 18 giugno 2010

Sciopera la Sevel, Fiom primo sindacato a Melfi

di Roberto Farneti - fonte [Liberazione.it]

L’accordo taglia-diritti imposto a Pomigliano d’Arco con la minaccia della chiusura dello stabilimento rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro per la Fiat. Le prime reazioni che stanno giungendo dalle altre fabbriche del gruppo, a partire dalla clamorosa affermazione della Fiom Cgil nelle elezioni delle Rsu alla Sata di Melfi, sono l’antipasto che conferma il famoso detto “chi semina vento raccoglie tempesta”. Certo, è probabile che la casa torinese, come auspica il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, riesca a estorcere il Sì della maggioranza dei lavoratori nel referendum-truffa che si terrà il 22 giugno. Del resto, quale altro risultato può esserci quando la domanda a cui devi rispondere è «vuoi lavorare o ti chiudo la fabbrica?». Come faccia l’ex segretario del Pd Walter Veltroni a dichiarare al <+Cors>Corriere della Sera<+Tondo> che questo non è un ricatto, rimane un mistero. Tra l’altro l’azienda, per agevolare la partecipazione al voto, ha deciso di sospendere la cassa integrazione solo per quel giorno, richiamando al lavoro tutti i 5.200 dipendenti.

Dopodiché, un manager che crede di essere moderno, come Sergio Marchionne, dovrebbe sapere che l’arma del ricatto può anche funzionare, specie in certi contesti, ma ti si può pure ritorcere contro, come sta già accadendo. Nemmeno agli altri operai della Fiat, infatti, piace la dieta “ottocentesca” prescritta dall’azienda per aumentare la produttività di Pomigliano (niente scioperi, taglio della pausa mensa, giorni di malattia pagati a discrezione della Fiat). E così ieri lo stabilimento Sevel di Atessa (Chieti), in Val di Sangro, si è fermato per due ore in ciascuno dei tre turni. Lo sciopero proclamato dalla Fiom ha visto, nel primo turno, l’adesione del 60% degli addetti alla lastratura e dell’80% degli addetti al montaggio. Prosegue intanto a Mirafiori la raccolta di firme contro l’accordo separato: in due giorni solo alle Carrozzerie - riferisce la Fiom - sono già state registrate oltre duemila e cinquecento adesioni. Un’analoga iniziativa è stata avviata nello stabilimento di Cassino.

«La Fiat dovrebbe cominciare a capire - spiega Fauso Durante della Fiom - che quella della cancellazione dei diritti è una via impercorribile. Per vincere la battaglia della competizione globale, una grande impresa moderna ha bisogno, innanzitutto, del consenso dei suoi dipendenti. Consenso che per l’Azienda è impossibile ottenere se non agisce per creare un clima cooperativo».

Il paradosso è che, con il suo atteggiamento da padrone delle ferriere, Marchionne rischia di rafforzare proprio quelle organizzazioni sindacali, come la Fiom, che dimostrano di voler difendere i diritti dei lavoratori con maggiore determinazione. Il risultato di Melfi è, a questo proposito, assai indicativo: con 18 delegati e 1.377 preferenze le tute blu Cgil sono tornate a essere nuovamente il primo sindacato dello stabilimento lucano, avendo ottenuto un delegato e venti voti in più della Uilm. «I lavoratori - ha spiegato il segretario regionale della Fiom, Emanuele De Nicola - hanno riconosciuto l’azione messa in campo dalla Fiom in una fase molto delicata che sta attraversando la Fiat, e che ha però visto in questi anni la mancata partecipazione degli operai alla contrattazione. Sono stati firmati diversi accordi separati, che hanno peggiorato la condizione dei lavoratori stessi, senza lo svolgimento di assemblee sindacali e senza votazioni». Sul voto ha pesato anche la vicenda di Pomigliano «che rappresenta un campanello di allarme - sottolinea De Nicola - anche per Melfi, perchè rischia di essere un ritorno alla fase precedente il 2004, quando la lotta dei “21 giorni” aveva equiparato lo stabilimento lucano al resto del gruppo Fiat».

Sentono puzza di bruciato le altre organizzazioni sindacali che hanno firmato l’accordo per Pomigliano e che ora temono di perdere consensi: «Non è vero che l’intesa lede diritti sindacali, tanto meno li elimina. Al contrario, garantisce posti di lavoro e sviluppo», dichiara Giovanni Centrella. Forse il segretario generale dell’Ugl farebbe meglio a leggersi bene l’accordo. Ad esempio il punto 15, dove c’è scritto chiaramente che «la violazione da parte del singolo lavoratore di una» delle clausole che lo compongono «costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole». Tradotto: chi “sgarra” - e quindi anche chi sciopera - è licenziabile.

Il coraggio di una scelta

Un progetto ha un inizio, un’evoluzione e un fine. E’ alquanto inopportuno, a mio avviso, parlare di questa Federazione come un qualcosa che, sì, è partita ma non sa né dove si stia andando né, tanto meno, dove voglia arrivare. Il coraggio di una scelta è fondamentale. Trovo paradossale che tanti partitini, per giunta tutti comunisti, trovino difficoltà nel porsi come obbiettivo la costruzione di un unico partito comunista.
Io da militante di base (ma devo constatare che questa ultime è poco presa in considerazione dai così detti vertici di partito/federazione) urlo a gran voce la costituzione di questo benedettissimo partito comunista. Urlo affinché il così detto “Nazionale” sia espressione delle compagne e dei compagni che, stanchi delle beghe politiche più da partito d’affari che da federazione comunista, resistono nella speranza che il vento torni a girare dalla nostra parte.
Noi comunisti abbiamo una grande fortuna e cioè quello di incarnare un ideale di società alternativo a quello fallimentare che oggi ci sta trascinando in una delle crisi economiche più devastanti della storia mondiale. Eppure non uno, non uno, dei nostri portavoce/coordinatori/segretari/o chicchessia riesce a sfruttare questo grande vantaggio.
Continuiamo a parlare di alleanze e coalizioni sulla base di “un nulla mischiato con il niente”.
Va bene la difesa dei lavoratori, del salario, delle pensioni, della scuola, della libertà di espressione e del sistema giudiziario, ma se non si riesce ad essere propositivi, anche queste battaglie rischiano di essere fini a se stesse.
Siamo una forza rivoluzionaria, il comunismo italiano è una delle più alte forme di progressismo che la storia moderna abbia mai conosciuto. Marx ha visto il futuro più di un qualunque Gesù di Nazareth, eppure c’è qualcuno dei “nostri” che è insofferente nei confronti della nostra storia? Io credo che ci sia da fare un grande lavoro formativo (o di riformazione) per i compagni che, vittime dell’ omologazione del pensiero (molto di moda in questo periodo storico), rischiano di perdere la dimensione grandiosa e avanguardista della filosofia comunista.
Parlo così forse perché vedo questo mondo con gli occhi di un 23enne.
Il mio futuro, quello lo vedo molto incerto eppure so cosa voglio e dove voglio andare, ma che tale incertezza sia alla base di un progetto politico come il nostro, credo che sia davvero controproducente per tutti noi.
E quando dico noi intendo il popolo tutto.

Buon Lavoro a tutti e saluti Comunisti.

Maurizio Ceccio - Federazione della Sinistra di Melfi

mercoledì 16 giugno 2010

La crisi secondo Francesco

In questi anni abbiamo notato il fallimento del capitalismo causato da governi ed imprenditori, incuranti dei nostri desideri come un posto di lavoro sicuro e ben retribuito e per quell'equità sociale che dopo anni di lotte stenta a decollare.
Contro la crisi bisognerà attivare un piano più complesso di una finanziaria, incentivando gli operai e non gli imprenditori fautori della crisi.
Un esempio di incentivi economici potrebbero essere la ripubblicizzazione del servizio idrico e dei rifiuti affidando la gestione ai comuni, incentivare l'economia verde legata alla raccolta differenziata e al solare, aumentare e proteggere il prezzo dei prodotti agricoli con maggiori tutele per gli allevatori oppure eliminare enti inutili come le provincie, comunità montane e tutte le organizzazioni che gravitano intorno ad esse.
Inoltre bisognerà incentivare la ricerca e l'istruzione distrutta, durante gli ultimi decenni, dai vari governi.
L'impegno, come FGCI, sarà quello di difendere il lavoro e i diritti ad esso collegati.

Francesco Ciliento - FGCI Melfi

venerdì 11 giugno 2010

L’Ue obbliga la pensione a 65 anni? Falso

di Rosa Rinaldi* - il Manifesto, 11 giugno 2010

Non è assolutamente vero che l’Europa impone che le donne italiane vadano in pensione a 65 anni, come invece viene motivato in modo infondato non solo dal governo, ma dalla più parte dei media. Com’è che invece l’informazione non solleva alcun dubbio?
I pronunciamenti di Commissione e Parlamento europeo non riguardano l’innalzamento dell’età, ma sono fondati sull’esigenza di non discriminare il lavoro femminile, giacché tutte le ricerche denunciano retribuzioni e pensioni inferiori a quelle maschili. Con la direttiva 79/1978, l’Europa salva infatti la possibilità per gli stati di stabilire età di pensione differenti tra uomini e donne; e comunque l’Unione non può intervenire sull’età stabilita dai paesi membri. Può, invece, chiedere conto di atti discriminanti, come «obbligare» le donne ad andare in pensione prima: perché, in presenza di un regime legato ai contributi, porta a un rendimento ridotto.
Esiste dunque una questione di parità, ma non riguarda l’età. Nella «Piattaforma di Pechino» i governi si erano piuttosto impegnati a esplicitare l’impatto delle politiche economiche in termini di lavoro pagato e non pagato e di accessi al reddito delle donne. E il Consiglio Europeo di Lisbona, nel marzo 2000, fissava l’obiettivo del pieno impiego attraverso un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e il diritto fondamentale al lavoro di uomini e donne. Nel diritto comunitario, del resto, la tutela antidiscriminatoria è da sempre un architrave, che col Trattato di Amsterdam del 1998 è divenuto un principio fondamentale.

I dati ufficiali mostrano invece che siamo ben lontane da una parità retributiva, quindi economica, sociale e politica. Questo il quadro: fino a 20.000 euro, 48% donne e 52% uomini; da 20.000 a 40.000, 27% donne e 73% uomini; da 40.000 a 60.000, 20% donne 80% uomini; da 60.000 a 80.000, 15% donne 85% uomini; da 80.000 a 100.000, 12% donne 88% uomini; oltre 100.000, 10% donne 90% uomini.
Il differenziale retributivo uomo/donna si attesta su una media del 23%. Il gap per le retribuzioni nette annue delle donne va da 3.800 euro per i dipendenti a tempo indeterminato agli oltre 10 mila degli autonomi. Gli uomini hanno in media redditi superiori in tutte le forme contrattuali: 23% nel lavoro dipendente, 40% in quello autonomo, 24% per le collaborazioni.
Il lavoro delle donne nei 14 paesi più avanzati per un terzo è lavoro pagato e per due terzi è lavoro non pagato. Mentre tre quarti del lavoro degli uomini è pagato ed un quarto no. Quindi, è il peso dell’ineguaglianza di genere nella distribuzione del lavoro non pagato che determina le condizioni materiali delle donne nel lavoro produttivo a tutti i livelli. Ciò mentre rimane un carico di lavoro famigliare non retribuito: all’Italia appartiene infatti il primato del tempo dedicato dalle donne al lavoro familiare. Lisbona auspica il raggiungimento nel 2010 di un tasso di occupazione femminile del 60% in tutti i paesi. I nostri tassi di occupazione femminile risultano inferiori a quelli medi dell’Ue per ogni classe d’età e non solo rispetto all’Europa a 15, ma anche rispetto alle recenti adesioni. L’Italia infatti è, dopo Malta, il paese con i più bassi livelli di occupazione femminile di tutta l’Ue.
Quanto poi alle anziane e pensionate, due dati sono confermati in tutte le aree del paese e in tutti gli enti previdenziali: il 76% dei trattamenti integrati al minimo (cioè sotto i 500 euro mensili) riguarda le donne (2,6 milioni) e le donne mono-pensionate sono il 64,8% del totale, con un importo medio annuo di circa 7.300 euro. Si aggiunga che solo l’1,2% delle donne arriva ad avere 40 anni di contributi, il 9% arriva a una contribuzione fra i 35 e i 40 anni e ben il 52% è al di sotto dei vent’anni. Il che la dice lunga su ogni ipotesi di elevamento dell’età pensionabile per le donne, che attualmente in Italia avrebbe solo l’effetto di peggiorare le condizioni per quelle poche che riescono ad andare in pensione con una vita lavorativa consistente alle spalle.
Prima di omologarsi ad una stramba idea di parità, ci piacerebbe che almeno il sistema dell’informazione desse conto di questa condizione in modo documentato. E forse scopriremmo che quella della disparità tra differenti è l’unica uguaglianza e una battaglia politica che val la pena di fare.

*Segreteria Prc, ex Sottosegretaria al Lavoro